L’America è un deserto”: è questa la metafora che Jean Baudrillard uno dei più importanti teorici della post modernità, utilizza nel suo omonimo libro per descrivere gli USA, totalmente agli antipodi delle città europee che hanno ereditato, nei secoli, la struttura e il concetto di polis.

L’America, al contrario, è uno spazio assoluto, vuoto di cultura e di socialità.

Negli USA moltissime metropoli derivano la loro specificità dal deserto ed è nel deserto del Mohave, in mezzo al nulla, che è sorta LAS VEGAS, gelida d’inverno e rovente d’estate, dipanandosi sullo STRIP, uno strettissimo nastro d’asfalto lungo sette chilometri in cui ogni centimetro è usato, esaltato e vissuto 24 ore su 24.

Ho scelto di andare in questa città che sembra di cartone, anche se è di solido cemento armato per immergermi nella sua follia, fatta di contrasti stridenti, impensabili per un occidentale.

Per capirla mi sono lasciata scivolare nell’utopia suggerita da una visione in cui per tutti c’è la Tour Eiffel, anche se è in scala ridotta e in cui antichi greci e antichi romani ti fanno entrare in hotel, casino e ristoranti, mentre nella notte ai lati dello STRIP ululano i coyote.